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EUtopìa

 

 

 

 

 

 

Basterebbe poco, pochissimo, per accorgersi che stiamo entrando in una fase storica nuova e che lo stiamo facendo male. Malissimo.

Per secoli l’Europa è stata l’unico palcoscenico degno di essere calcato. Tutto il resto era un’appendice di microscopiche super potenze: piccole per dimensione territoriale della rispettiva madrepatria, ma virali e ubique per egemonia. Protagoniste soliste capaci di contagiare tutti i continenti e imporre leggi, linguaggi attraverso lingue e lignaggi. Per sempre.

Finchè “per sempre” è finito. Per sempre.

Nell’ultimo secolo l’umanità ha prodotto tutto ciò che serve a sfiorare la perfezione e la distruzione. Ecco perché i lavori più pagati sono oggi quelli manageriali: gestire, in questo marasma, è diventato uno dei mestieri più complicati perché lungo l’arco di un respiro un’azienda, una società, una civiltà o il pianeta intero possono levitare o dissolversi.

La contemporaneità rappresenta un caos in precario equilibrio.

L’Europa non è più centro né periferia.

E’ particella subatomica di uno spazio sospeso in bilico nel vuoto istituzionale.

Gli Stati Uniti d’America concentrano la propria attenzione strategica verso il Sud-Est dell’Oceano Pacifico, su Taiwan: esempio iconico che un’Isola può diventare punto nevralgico che culla il destino delle ultime potenze imperiali accreditate in uno stallo senza sbocco. La competitività e la competizione si attenuano, tatticamente, preferendo neo protezionismo postcapitalistico e deregolamentazione turboliberista per fronteggiare il comunismo di mercato che da Oriente si espande in tutte le direzioni: Africa, Asia centrale, India e sud America compresi.

L’attuale presidenza americana deve allontanare la Russia dalla Cina: la possibilità è quindi innanzitutto usare una leva commerciale. Distogliere l’attenzione della Cina dalla Russia e da Taiwan è impresa ardua se lo strumento su cui si punta è l’applicazione di dazi. Con il Cremlino, invece, si tenta anche una ricucitura che passa attraverso l’abbandono del quadrante europeo dopo ottant’anni di protettorato e presidio talassocratico; benedizione di gruppi subalterni di potere in un’Europa già abbastanza sfilacciata e sospesa su un crinale traballante e, a corollario, si confida su un rapporto personale basato su pragmatismo e conservatorismo. Un mantra che potremmo qui ridefinire con un pastiche: make America gretta again.

La Russia, con un PIL inferiore a quello della sola Spagna, ha compensato le sanzioni comminate dall’Occidente facendosi avvolgere dalle spire della Cina. Il popolo russo, sintagma di convenienza, ha abdicato alla propria libertà individuale e collettiva: si nutre della consapevolezza di ciò che non può essergli tolto, sebbene sia detenuto da un gruppo sparuto di “io”. Le materie prime che si trovano nel proprio sottosuolo la rendono un luogo sterminato e speciale  da Kaliningrad allo Stretto di Bering.

Inoltre, proprio per l’estensione geografica e la morfologia, la Federazione russa vive il paradosso senza tempo di confinare con gran parte del mondo ed essere parimenti emblema di solitudine. Mosca, la Terza Roma, si dimena perché non può accettare il prezzo della sudditanza verso Pechino. La frustrazione dell’irrilevanza diventa aggressività militare, di azione e di deterrenza.

L’equilibrio multipolare e multilaterale scorre tramite le infrastrutture intangibili che, a uno sguardo attento, appaiono più concrete che mai. La finanza investe nella dematerializzazione deila moneta e scommette sulla delocalizzazione dei settori strategici. L’iper-connessione delle reti viaggia sotto gli oceani e sopra i cieli e manda segnali parossistici: un satellite comunica la posizione di un luogo, di un individuo e può essere usato in un attimo per raggiungerlo, quindi per annichilirlo.

L’intelligenza artificiale è convitato di pietra digitale di questo nuovo mondo distopico, in cui si scommette sulla sostituibilità delle persone, con il limite non più così lontano per il quale la tecnologia che doveva aiutare gli esseri umani li oltrepassa, li surclassa. Occorrerebbe chiedersi se avrebbe ancora senso l’informatizzazione in un mondo nel quale le persone non servono come lavoratori, non servono come consumatori, non hanno denaro, non hanno diritti. Sono ridotte a pacchetti di dati che divengono merce di scambio. Da ultimo non sono più indispensabili a una società di macchine: divenuti unità di misura aggregata non più convertibile, smettono di esistere, quindi non sono.

L’Europa da teatro di attori protagonisti è divenuta luogo di spettatori afoni, infine muti, che assistono al presente e sbirciano il futuro dalla terzultima fila.

L’Unione europea è l’unico soggetto istituzionale nato non come patto militare ma come accordo per costruire la pace e garantire benessere e prosperità. Non esistono precedenti nella storia dell’umanità di questo esperimento copernicano e ciò spiega anche la difficoltà di trovare il proprio posto, di autodefinirsi secondo categorie inedite.

Il problema è giuridico ma le cause di tale atipicità risiedono nella ricerca dal gusto psicoanalitico e metafisico della chiave per la propria affermazione rispetto al resto del mondo e con quale identità.

Non c’è vestito che calzi su Bruxelles, benchè in tantissimi provino a metterle un cappello.

Poco importa che lo si faccia per interesse scientifico cercando un modello comparatistico: nulla è come l’Unione europea di oggi.

Occorre invece vigilare su coloro che per mascherare velleità autoritarie o perché asserviti ad altri blocchi di influenza speculano sull’idea di Europa. Ha paura e va smascherato chi subdolamente getta discredito sul progetto politico di integrazione e costruzione di un’unica realtà post nazionale nella quale ogni minoranza ha voce, purchè espresse nel perimetro della separazione dei poteri, dei pesi e contrappesi, della tutela dei diritti fondamentali, senza confondere il processo democratico con l’anarchia sistemica che favorisce le disuguaglianze e aumenta la divaricazione tra capitali e province, tra continente e isole, tra maggioranza e opposizioni.

Gli Stati ottocenteschi non esistono più: i nazionalismi, i populismi, sono rigurgito e coda di società eterogenee, sperequate, nelle quali il disagio è linfa vitale per armare i popoli e distrarli.  Dal 1993 grazie al Trattato di Maastricht fino al 2009 con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’Europa ha fatto dei balzi in avanti che mai nessuno aveva sognato prima, neppure il Manifesto di Ventotene, realisticamente.

Da comunità ristretta ha scongiurato guerre fratricide mediante la cogestione delle materie prime necessarie agli armamenti (CECA, primi anni Cinquanta). Trent’anni dopo circa (1986) viene aperto il più grande mercato unico del globo (Atto Unico europeo). Nei primi anni Novanta ha introdotto il concetto di cittadinanza europea. L’Europa non è più una comunità anonima che sta insieme per non bombardarsi o per concludere affari: è comunità di destino con radici differenti e orizzonte condiviso.

Tutto scorre in modo quasi naturale, consequenziale. Tutto si ferma di nuovo all’improvviso a metà della salita e la gravità riporta l’Europa indietro. Si blocca il processo di costituzionalizzazione nei primi anni Duemila; l’introduzione dell’Euro come prima monetà senza Stato porta a nuove disparità perché, a differenza di tante scelte sofferenti ma accolte per un bene più alto, la mancata condivisone del debito pubblico dei Paesi più fragili, il veto incrociato e l’austerità portano a una contrazione del sentimento filo europeo. Le classi dirigenti più conservatrici e sovraniste trovano nell’anonima e grigia Europa l’espediente perfetto per scaricare ogni responsabilità, rinnegano valori e principi fondanti come la solidarietà, la sussidiarietà e, duole riconoscerlo, l’impasse viene superato a carissimo prezzo da scelte elitarie, che tamponano le emorragie finanziarie in corso nell’Europa mediterranea ma non ricompongono le fratture con i Paesi più intransigenti. Senza unità finanziaria, l’unità economica è poco più che un feticcio.

L’allargamento a Est degli Stati ex sovietici rappresenta un atto di coraggio temerario perché lì ancora si digerisce a fatica l’architettura democratica, mentre si insinua il senso di sfida verso le regole comuni: “voglio soldi, non voglio regole. Dammi più soldi, o vado via”. Questo è ciò che dicono i Britannici fino alla Brexit e che ripetono gli Ungheresi ancora adesso. Davanti a un ricatto che non ha nulla di istituzionale né alcun tono conciliante, si comprende che lo spazio di decisione si restringe in due opzioni: espellere i Paesi che non rispettano lo stato di diritto oppure, eliminare il voto all’unanimità, analogamente a ciò che si fece nel 1966 quando l’Europa era poco più che un club, ancora lontano da essere il più grande mercato libero che il mondo avesse mai conosciuto.

Da ormai vent’anni sopravvive una lotta intestina tra istituzioni europee: da una parte istituzioni intergovernative (gli Stati) che giocano ciascuno per sé; dall’altra le istituzioni sovranazionali che non hanno l’autorevolezza necessaria né gli strumenti giuridici e politici sufficienti per offrire una visione di futuro. Nel 2025 l’ennesimo errore che potrebbe risultare fatale e che è frutto dei precedenti fallimenti e della mancata scelta al tempo opportuno. Gli Stati Uniti d’Europa, il progetto federale, si sarebbero dovuti fare almeno quarant’anni prima di oggi.

Duole scriverlo, perché evidentemente non è così ovvio, ma il federalismo europeo non solo non è più sufficiente, ma è ormai obsoleto, anacronistico rispetto alle esigenze che l’Europa ha il dovere di affrontare. Gli Stati nazionali europei non esistono più: quasi due leggi su tre fra quelle oggetto di lavoro dei parlamenti sono norme che derivano da precedenti disposizioni europee.

Le “regole generali” per la pubblica amministrazione, per i tribunali, sono già condivise da decenni. Sono rimasti alcuni reperti in mano agli Stati che, infatti, causano solo ulteriori guai: manca una politica estera comune. L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea (che, per inciso, è anche di diritto vice presidente della Commissione) non conta nulla. Ognuno fa per sé, ignorando che, qualunque cosa accada, gli effetti ricadono anche sugli altri partner. Gli eserciti dei singoli Paesi, da soli, non contano nulla e qualunque azione scomposta di un singolo può compromettere il posizionamento del resto dell’Unione.

La Nato è diventata una creatura mutaforma, che occlude la possibilità di una difesa comune esclusivamente europea. Bisogna intendersi: l’errore della Commissione europea non è solo quello di pretendere uno stanziamento di 820 miliardi di euro circa per aumentare la potenza-potenziale militare ma quello di non chiarire sufficientemente all’opinione pubblica le ragioni di una difesa che deve essere esclusivamente comune e non concorrente con quella dei singoli Paesi. Infine, passare dall’austerità dei conti pubblici iniziata nei primi anni Dieci, la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, i tagli alla spesa pubblica, la mancanza di riforme che volgano verso una nuova Unione europea, nella quale gli Stati finalmente siano ridimensionati a strutture puramente di raccordo amministrativo e le comunità territoriali possano avere finalmente rappresentanza, tutto questo è ingiustificabile. Tutto questo agevola le banalizzazioni, le insinuazioni, il complottismo. Il prezzo di tale ritardo e inettitudine potrebbe essere ancora più caro di mille PNRR.

L’abbiamo capito: quando  si dice che “non ci sono soldi” non è mai vero. I soldi ci sono ma dipende da come si sceglie di usarli. La credibilità di una sana e prospera Res publica democratica europea passa per la consapevolezza delle proprie classi dirigenti che si può sempre decidere se e come combattere una guerra, ma non c’è scelta peggiore che perdere il rispetto e la fiducia delle future generazioni ed essere ricordati come responsabili di una incompiuta EUtopìa.

© Marco Deplano 2025